Da tempo si discute sul fatto che l’avvento di politiche monetarie di maggior rigore, soprattutto da parte americana, per contrastare l’inflazione, possa portare ad una nuova fase recessiva. Fermo restando, come più volte detto, la diversa origine dell’inflazione USA da quella in Europea (là di natura “finanziaria”, provocata da un eccesso di domanda, resa ancora più evidente dalla spinta dei salari in un regime di pressochè piena occupazione, con un livello di disoccupazione al 3,6%, da noi dovuta quasi esclusivamente dall’aumento dei prezzi dell’energia, in conseguenza della forte dipendenza dalla Russia), ad oggi, però, le “armi” per combatterla sono sostanzialmente molto simili, fatta salva la discrasia temporale (negli USA abbiamo già avuto 3 aumenti di tassi, da noi sta per essere dichiarato il 1°), sostanzialmente sintetizzabili nell’uso della leva del tasso.
I mercati sembrano dare quasi per scontato l’arrivo della recessione. In una delle sue più celebri battute, Paul Samuelson, uno dei gradi economisti del secolo scorso, amava dire che “Wall Street ha previsto 9 delle ultime 5 recessioni”…
Un modo per dire che spesso i mercati esagerano nel valutare l’andamento dei dati macro. Il rialzo degli ultimi giorni (venerdì il Nasdaq ha chiuso con un balzo di oltre il 3,5%) è in gran parte dovuto all’idea che, con l’arrivo della recessione, le Banche Centrali saranno costrette a rivedere le lo politiche monetarie, improntate, come appena ricordate, al rigore per riportare l’inflazione al target del 2%. Ma se guardiamo all’andamento del principale mercato borsistico mondiale, notiamo come Wall Street ad oggi sia scivolata non per una drastica caduta degli utili, sintomo di un’attività in riduzione, ma al restringimento dei multipli ai quali sono valutati. Utili che, invece, sono visti in rialzo del 10% quest’anno e del 9% l’anno prossimo, a fronte di ricavi in crescita rispettivamente dell’11 e del 4,8%. Solitamente l’impatto delle politiche monetarie sull’inflazione si verifica con un certo ritardo: il rischio, quindi, è che i prezzi parecchio tempo dopo che domanda e occupazione siano scese, con i tassi che invece sono stati aumenti troppo e troppo a lungo. Questo è il vero dilemma per Powell e tutti i banchieri centrali. Anche se da noi, ripetiamolo ancora, il problema ha natura profondamente diversa e non è assolutamente detto che l’aumento dei tassi sia la strada giusta. Certo è la strada più “nota” e, forse, “confortevole” per chi deve assumersi la responsabilità, rispetto ad altre soluzioni che richiederebbe sforzi creativi e, senza dubbio, politici. In quest’ottica si può situare quanto sta portando avanti con forza il nostro Presidente Draghi, che, ancora una volta, si sta confermando, da tecnico, il “più politico” di tutti e, indubbiamente, colui che, prima e più di altri, ha centrato il nocciuolo della questione: porre un freno all’aumento dei prezzi dell’energia da parte di chi, verso l’Europa, ha il monopolio. La vera “frammentazione”, quindi, non è tanto quella degli spread, bensì quella dell’energia: fin quando ogni Paese, in considerazione della propria situazione e delle proprie esigenze, potrà trattare singolarmente con chi esercita il monopolio il problema rimarrà irrisolto. Solo nel momento l’interlocutore sarà uno (e quindi il uno solo il prezzo, che per forza di cose dovrà essere calmierato) il problema troverà una soluzione. Quello potrebbe essere il nuovo, vero, passo avanti per l’Europa, anteponendo il bene dell’Unione a quello dei singoli Stati.
C’è da esser certi che durante il G7, in corso di svolgimento da ieri e sino a domani in Germania, l’argomento sarà sul tavolo, anche se, ovviamente, gli attori in gioco rappresentano aree molto diverse tra loro (Giappone, America del Nord, con USA e Canada, la “brexiter” Gran Bretagna) e quindi inutile aspettarsi decisioni in questa sede.
Il tutto mentre sulla sfondo si delinea il default della Russia per il mancato pagamento delle cedole su 2 emissioni obbligazionarie con scadenza 2026 e 2036, rispettivamente in $ e in €: default che si può definire “tecnico” (avviene non perché la Russia non abbia i soldi per far fronte ai pagamenti, ma perché, essendo soggetta a sanzioni, non può provvedere nei termini contrattuali previsti), ma sempre default rimane, con le conseguenze finanziarie del caso (in primis un aumento dei costi dei
CDS, il costo delle “assicurazioni” per garantire le emissioni, per arrivare all’impossibilità di accedere al credito, situazione, questa, che già rientra nelle sanzioni).
Settimana che inizia sotto il segno del rimbalzo in Asia, con tutti i mercati in deciso rialzo.
Nikkei + 1,50%, Shanghai + 0,80%, Hong Kong + 2,35% (con indice Hang Seng Tech a + 5%).
In deciso rialzo anche altri indici dell’area, come il Kospi a Seul (+ 2%) e Mumbai (+ 1,3%).
Futures appena sopra la parità in Usa, mentre in Europa sembrano leggermente più incerti.
Petrolio che inverte la rotta dopo i realizzi della settimana scorsa: questa mattina troviamo il WTI a $ 107,34, + 2,83%.
Debole invece il gas naturale americano, a $ 6,174, – 1,91%.
Oro stabile a $ 1.837, + 0,30%.
Spread di nuovo in rialzo, a 215 bp, per un rendimento del BTP che torna verso il 3.50%.
In crescita anche il Treasury, che troviamo al 3.15%.
€/$ a 1,0557.
Cede qualcosa il bitcoin dopo il recupero della settimana scorsa: questa mattina è a $ 21.220, – 1,12%.
Ps: e così, dopo Bruce Springsteen, Bon Dylan, Sting, Davide Bowie (gli eredi), Paul Simon (solo per citare i più noti), anche i Pink Floyd sembrano stiano per cedere il loro catalogo. Ad oggi il valore dei “diritti” del catalogo musicale dei “big” è pari a $ 2,5 MD (solo quello del “boss” è stato valutato $ 500 ML), ma quello della band che forse più ha segnato gli anni 70/80 potrebbe superarli tutti e non di poco. Per rimanere alla “musica di casa nostra”, l’unica valorizzazione attendibile è quella relativa al binomio Battisti-Mogol: la società che detiene i diritti (Acqua Azzurra) è valutata € 14 ML, ma, con 4 cause pendenti tra i soci (eredi di Lucio Battisti e lo stesso Mogol), parlare di vendita è insignificante.